Perché i genitori devono vedere Inside out con i propri figli

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Quando ho visto per la prima volta il trailer di “Inside out” ho pensato “Alla Pixar piace vincere facile“. Non è un grande segreto di marketing, ormai, il fatto che per vendere prodotti o trasformare click in azioni di conversione basti far leva sulle emozioni delle persone. Anche chi non ha una formazione pubblicitaria ormai coglie facilmente la differenza tra lo spot olimpico delle mamme P&G e un qualsiasi commercial anni ’90 di detersivi per la casa con la mamma che lava il pavimento, saltellando su décolleté  tacco 12. Non ci vuole molto quindi neanche ad immaginare che un intero film sulle emozioni sia praticamente un’azione di meta-marketing.

Poi ho letto una serie di articoli su Facebook e mi sono preparata al peggio: sono arrivata al cinema conscia del fatto che guardando Inside out avrei pianto (e molto pure) e che Tristezza sarebbe stata l’emozione-rivelazione del film.

In realtà il peggio doveva ancora arrivare. I primi 10 minuti sono stati un colpo al cuore: la protagonista del film, Riley, che vediamo felice e contenta nei primi anni della sua vita, assomiglia in modo spaventoso a mia figlia Sofia, 10 anni appena compiuti, capelli biondi, occhi azzurri e una certa predisposizione alla stupidera. Si differenziano solo per il fatto che una è fatta di pixel e l’altra di carne e ossa, una è fissata con l’hockey e l’altra è un’antisportiva degna della mamma. Guardo la bambina nello schermo e quella seduta accanto a me sulla poltrona rossa. Tac. L’immedesimazione è scattata. Sono fregata.

Da quel momento nel mio cervello inizia più che turbinio, un vero e proprio trip di emozioni, per cui seguo la storia della bambina del film e la paragono con quella della bambina sulla sedia, seguo la storia delle simpatiche emozioni del film e le paragono a quelle che mi frullano per la testa mentre guardo il film e faccio questi paragoni.

Insomma, sono entrata al cinema per vedere un film della Pixar e nel frattempo mi sembra di essere la protagonista di un film di Michel Gondry.

In tutto ciò la mia deformazione professionale, mi porta anche a cercare di seguire il film senza farmi sopraffare dalle emozioni e a cercare di leggere e analizzare i tanti significati pedagogici, sociologici, psicologici e antropologici. Ma è una battaglia persa in partenza.

Vedo Bing Bong, l’amico immaginario di Riley da piccola, una sorta di elefante rosa buono che guida un razzo a propulsione canora e piange caramelle e non capisco più niente.

E così anche le immancabili genialate pixar, come il pensiero astratto (solo quella scena meriterebbe l’Oscar) la Cineproduzione sogni (degna della golden age hollywoodiana di “Cantando sotto la pioggia”), la foresta del subconscio con il clown gigante (che tanto ci dice sull’immaginario americano), il motivetto pubblicitario che torna in testa quando meno te lo aspetti (io vorrei sapere chi si diverte nel mio cervello con “Le mucche fanno MU, ma una fa MU MU” alla tenera età di 33 anni), mi conquistano, mi fanno molto divertire, ma poi lasciano completamente spazio libero alle emozioni suscitate dal film.

Gli ultimi 20 minuti sono di pianto ininterrotto. Non piangevo così tanto al cinema dai tempi della Vita è bella.

Non vorrei fare terrorismo psicologico con chi non ha ancora visto il film, ma credo che ad ogni famiglia possa far bene una capatina al cinema per piangere insieme. Perché si piange di tristezza, ma anche di gioia.

Perché se noi genitori ci impegnassimo davvero a capire cosa sia, come si applichi e come si insegni ai figli l’intelligenza emotiva, le nostre famiglie vivrebbero molto meglio.

Perché a quel punto non avremmo bisogno di un film per capire che non esistono emozioni belle e brutte o emozioni giuste e sbagliate.

E non avremmo bisogno di un articolo per sapere che Tristezza è un’emozione-rivelazione.

Ma sapremmo che Tristezza è come un certo tipo di compagna di viaggio: per tutto il tragitto è pesante, ma alla fine ti porta a scegliere la strada giusta.

ps. Vi ricordate cosa avevo scritto qualche tempo fa sul vero amore negli happy ending di ultima generazione disneyana? Se non lo ricordate leggete QUI. Dopo Inside Out ho una nuova conferma per la mia teoria 🙂

Tieni stretto il tuo pensiero felice, Peter.

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Non ce l’ha fatta, Robin Williams, a tenerlo stretto quel pensiero felice.

E se ne è andato via in una notte d’agosto, quasi in sordina, tra lo sgomento di chi è restato e forse nemmeno si chiedeva che fine avesse fatto negli ultimi anni.

Era il mio attore preferito quando avevo 11 anni, ma solo stamattina ho realizzato quanto bene e quanto male gli abbia fatto il mondo del cinema.

Perché se Hollywood non ti trasforma come persona nel personaggio che interpreti, è molto probabile che ti trasformi esattamente nel contrario di chi sei sullo schermo.

E’ stato l’icona del cinema per famiglie degli anni Novanta, ma si è sposato 3 volte, ha tradito la prima moglie con la babysitter del figlio e frequentava il giro di eroinomani in cui è morto John Belushi.

Dichiarava nelle proprie interviste che sarebbe voluto morire ridendo, ma, ironia della sorte (mai espressione fu più azzeccata), se l’è portato via una brutta depressione.

Ha interpretato grandi mentori e punti di riferimento per i giovani, per i bambini e anche per gli adulti, insegnando a credere nella libertà, nei sogni, nella speranza, nelle proprie capacità. E forse è anche per questo che lascia noi, semplici spettatori privi di elementi per capire la sua storia e la sua scelta, completamente spaesati davanti al suo ultimo gesto.

La dissolvenza in uscita che chiude il film della vita di Robin Williams ha il sapore amaro di qualcosa che non si può mandar giù.

Perché il “papà sullo schermo” per la maggior parte dei miei coetanei, se n’è andato nel modo più inaccettabile per un figlio.

“Ricordatelo per la sua brillante carriera e il suo sorriso e non per il modo in cui è morto” ha chiesto con un comunicato ufficiale sua moglie.

Ha ragione: ma come si fa a non pensarci? Come si fa a non pensare alle conseguenze mediatiche di questo gesto?

E’ morto un attore che ha segnato inequivocabilmente la storia del cinema.

E con la sua morte, oggi, abbiamo già constatato che sia nato un nuovo mito.

Dopotutto, la strana legge che regola lo Show Business funziona così: se non muori di vecchiaia ad Hollywood resterai un mito per sempre.

Tu non ci pensare e fai buon viaggio, Capitano. E se ci riesci recupera il tuo pensiero felice lungo la strada.

Così si vola meglio.

Principesse Disney e Vero Amore: come cambia l’avanguardia Disney rispetto alla società contemporanea

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Ieri sera sono andata al cinema con le mie amiche del rito telefilmico a vedere “Maleficient“.

Non preoccupatevi. Questo post non sarà la recensione del film, che tra l’altro potrebbe essere spietata, ma l’occasione per  descrivere un fenomeno molto interessante: l’evoluzione dei comportamenti e dei sentimenti delle principesse Disney degli ultimi anni.

Con un tema del genere è molto semplice cadere nel banale: prima le principesse nascevano, morivano e cadevano in morte apparente secondo la logica maschilista del “cresci, trova l’uomo della tua vita, sposati e vivi per sempre felice e contenta“. Oggi le eroine della casa di Topolino devono prima realizzarsi nella propria carriera, girare il mondo, farsi una cultura e poi, se avranno del tempo libero tra il lavoro e la gestione del regno, potranno dedicarlo ai vari fidanzati che non sono più principi azzurri.

Questa visione è vera, ma è banale.

Credo che la Disney, da sempre sia andata molto oltre questa distinzione semplicistica messa in piedi dal femminismo prima e dal post-femminismo dopo.

Mi spiego meglio con degli esempi.

Ricordate quella soggetta di Biancaneve che mangiava le mele offerte dagli sconosciuti e poi si svegliava con un bacio di un principe,  che in fondo era sconosciuto pure lui? E quella poveretta di Cenerentola, fregata da un ballo, il cui principe ha bisogno di una scarpetta per ritrovarla, perché non si ricorderebbe la sua faccia? Per non parlare di Aurora, che per quanto abbia un principe ben più interattivo, deve comunque fare i conti con i suoi problemi di narcolessia.

Ebbene, se considerate che Walt Disney era un creativo d’avanguardia (e lo dimostrano moltissime sue opere: da quel capolavoro espressionista che è Fantasia, a quei piccoli gioielli animati vincitori di numerosi oscar come le Silly Sinphony, senza dimenticare i viaggi psichedelici di Alice e gli elefanti rosa di Dumbo, per non parlare di Disneyland), la rappresentazione delle principesse fino agli anni ’60 era anch’essa avanguardia rispetto alla visione della donna del tempo. Si, perché negli anni ’30, ’40 e ’50 le donne non potevano mica sposarsi per amore. O meglio, era ancora molto difficile che riuscissero ad avere un matrimonio felice e un happy ending. Invece, il sogno d’amore che avevano le nostre nonne (e che in realtà quasi mai si tramutava in matrimonio d’amore) è sempre presente nei tre cartoni. Non sarà un caso che le principesse in questione, sebbene vivano in periodi storici non meglio specificati tra il medioevo e il settecento, abbiamo lineamenti, trucco, acconciature e atteggiamenti, riconoscibilissimi al decennio in cui sono stati realizzati i cartoni animati. Le tre storie animate delle principesse, rappresenterebbero quindi una visione utopica e felice rispetto ad una realtà ben più crudele. Rispondendo, tra l’altro, alla funzione sociale di evasione del cinema di quel periodo.

Le principesse successive sono quelle a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, quelle della mia infanzia: Ariel, Belle, Jasmine, Pocahontas. E anche qui, sembrerà strano, ma nonostante Walt sia morto da un pezzo, ritroviamo l’avanguardia che contraddistingue l’etichetta di produzione. Sono principesse che, in pieno boom consumistico, predicano valori come la cultura, l’accettazione della diversità, l’andare oltre l’apparenza. Come Belle che è una nerd amante della lettura e si innamora di una bestia che è tutto il contrario del suo pretendente in stile Baywwatch, Gaston. O come Jasmine che è stufa di essere una principessa, si innamora di uno straccione e se la prende con lui quando non vuole essere se stesso. O come Pocahontas che ci parla di pace e natura, in un periodo recente in cui la guerra per colpa del neocolonialismo è dietro l’angolo in mezzo mondo e la raccolta differenziata ancora non esiste.

Infine, arriviamo ai nostri giorni e all’ultima generazione, quella di cui fa parte anche l’Aurora di Maleficent che ho visto ieri. Quali sono gli atteggiamenti e i sentimenti delle principesse di oggi? Ora che le donne hanno capito che l’amore a prima vista non esiste, che si sono affermate nella società grazie al lavoro e alle doti personali, che tutti parlano di ecologia, di sostenibilià e di cultura come  valori aggiunti, possiamo ancora associare le parole “Disney” e “avanguardia”?

Ovviamente si. Perché nel frattempo la società è profondamente cambiata e le principesse continuano ad esserne lo specchio in grado di mostrare soluzioni alternative per superarne i problemi o di raccontarci le utopie d’evasione

Andiamo, anche in questo senso, sul pratico. Se mettiamo a paragone le ultime principesse: Rapunzel, Merida di Brave, Elsa & Anna di Frozen e Aurora di Maleficient, troveremo anche stavolta un denominatore comune. Tutte affrontano per un motivo o per un altro la crisi dell’istituzione familiare. Per tutte l’obiettivo non è più il matrimonio, non è nemmeno la carriera o l’affermazione personale. Tutte cercano la propria famiglia. Dalla prima all’ultima.

Rapunzel vive con una mamma-strega che la tiene prigioniera e dalla quale vuole fuggire, per ritrovare i propri veri genitori. Merida cerca di salvare la madre, con la quale ha un rapporto conflittuale, trasformata in orso. Anna è alla ricerca della sorella Elsa, per ricostruire la famiglia dopo la morte dei genitori in un modo in cui le emozioni si sono cristallizzate per colpa del ghiaccio. Perfino la piccola principessa Sofia per la Tv, figlia di una ragazza-madre, cerca di crearsi una vera famiglia con il marito della mamma e i suoi due figli. L’ultima Aurora ha genitori degeneri, zie adottive che meriterebbero gli assistenti sociali e vorrebbe vivere con una fata madrina cattiva e single, a cui nessuno si sognerebbe di affidarla secondo le convezioni sociali esistenti. Insomma, un bel pout-pourri di casi umani per psicologi e pedagogisti, che non è molto diverso da quello che puoi trovare in giro oggi, se conosci un po’ di adolescenti e le loro famiglie.

Qual’è la morale delle favole e per le principesse dei nostri tempi? In tutte, dalla prima all’ultima, che il vero amore come lo si intendeva negli anni ’50 non esiste più e si è trasformato nell’amore familiare, più o meno codificato secondo i principi della società contemporanea. Che è l’unico happy ending di cui oggi la nostra società abbia bisogno per risolvere i propri traumi ed essere rimessa in piedi. Che scioglie il ghiaccio, riscalda i cuori, trasforma gli orsi e fa svegliare dalla morte apparente.

Davvero.

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Come Ellen ri-mittizò gli Oscar

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Questo non è un articolo su chi ha vinto i Premi Oscar. E nemmeno sugli outfit delle stelle. Per cui se sperate di trovare il solito elenco di categorie e vincitori o una gallery commentata di abiti da sera più o meno azzeccati, potete anche fermarvi qui.

Se invece vi interessa scoprire come sia avvenuta la ri-mitizzazione del più importante premio cinematografico del mondo e della storia, potete andare avanti e, forse, troverete il modo di riflettere sulla semi-rivoluzione avvenuta stanotte dalle parti di Hollywood.

E’ più o meno da quando ho 15 anni che, essendo appassionata di cinema ma anche stanca per natura – quindi incapace di reggere un after fino alle 6  – la mattina dopo gli Academy Award appena sveglia e prima di fare qualunque cosa, mi leggo ogni aggiornamento sulla Cerimonia.

Stamattina la prima cosa che ho pensato è stata: “Ma cosa mi sono persa?!?!”

Prima di tutto la vittoria di Sorrentino per il miglior film straniero. Una “grande bellezza” che ci ricorda come l’Italia ogni decina d’anni può riuscire a portare a casa la statuetta, ma sopratutto che riesce a farlo quando sa guardare al di là del proprio naso, quando racconta l’Italia vera, al di fuori dagli schemi autoriali che tanto piacciono ai critici di casa nostra e tanto annoiano gli americani, abituati sicuramente a ben altri toni narrativi.

Ma sopratutto mi sono mangiata le mani per non aver assistito in diretta all’auto-de-mitizzazione del concetto di “Cerimonia di Premiazione degli Oscar” avvenuta mentre dormivo beatamente.

Da sempre punta di un iceberg chiamato star system e apoteosi di un ingranaggio perfetto basato sull’autocelebrazione e l’immagine dell’industria cinematografica americana, la serata di premiazione degli Oscar è un mix sapiente e più o meno equilibrato di omaggi al cinema, polvere di stelle, flash dal gusto glamour, inserti da show di Brodway e cabaret, conditi con una massiccia dose di pubblicità più o meno mascherata (agli sponsor, ai prodotti, alle case di Moda, agli attori, ai film, ad Hollywood).

Come sta accadendo in quasi tutto il mondo, e per quasi tutte le industrie, questo meccanismo così perfetto ultimamente sembrava essersi inceppato. Come avevo già scritto qui sul fenomeno del divismo, le Celebrities di oggi non sono più come quelle di un tempo. Se tutte ormai hanno un account twitter, instagram o una fan page ufficiale di Facebook, tutto ciò che possiamo sapere su di loro è facile da trovare in rete. Ormai scopriamo le gravidanze delle star direttamente dalle foto dei test positivi che postano.

Di conseguenza quell’allure da divinità, anche sul tappeto rosso e sulla poltrona del Dolby Theatre, per quanto contornato da patinati abiti di Alta Moda, gioielli prestati da milioni di dollari e spettacolari show degni di Brodway, non ha più lo stesso fascino di un tempo.

Anzi, sembra quasi fuori dal tempo. Un po’ come il ballo delle debuttanti. Una cerimonia vecchia legata ad uno status symbol che forse non esiste più.

E qui entra in gioco Ellen.

Da buon ambiente maschilista, se Hollywood deve investire una donna di tal ruolo o la mette in compagnia di un uomo protagonista, o se vuole il one-woman-show lo affida ad una donna con… i pantaloni (per dirla in modo fine). Non è un caso che negli ultimi 25 anni le uniche due presentatrici siano state le grandi e tostissime Woopy Goldberg ed Ellen DeGeneres.

E se la donna è la padrona di casa, l’ambiente è più disteso, informale e accogliente per tutti.

Ma quest’anno Ellen ha proprio superato se stessa, facendo due cose che fino a pochi anni fa nessuno si sarebbe mai sognato di fare.

Ha offerto la pizza, con tanto di porta-pizze e cartoni all’americana, e ha scattato un selfie di gruppo con una decina di mostri sacri di Hollywood.

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In questi due semplici gesti c’è tutta la de-mitizzazione di un sistema che ha bisogno di adeguarsi ai tempi che cambiano. E’ un modo di strizzare l’occhio allo spettatore, di renderlo partecipe di qualcosa in cui fino a questo momento era escluso, di accoglierlo attraverso due veri miti semplici e caserecci (la pizza, l’autoscatto con il cellulare) in un mondo di miti complessi e industriali (il cinema, il divismo) nella sua espressione più grande (gli Oscar).

Non era una cosa semplice, ma il fatto che la foto del selfie (in cui vi prego di notare le espressioni di Meryl Streep, Julia Roberts e Kevin Spacey e la povera Angelina impallata dal nuovo che avanza) sia diventata il tweet più ritwittato di sempre dimostra che l’operazione è riuscita.

Occhio, però. Perché se Hollywood è un’industria dall’ingranaggio perfetto, non è detto che tutta queste novità siano espressioni spontanee della comunque geniale Ellen DeGeneres. Perché quella che è avvenuta stanotte, non è una semplice de-mitizzazione. E’ una ri-mitizzazione studiata e riuscita, e probabilmente molto ben mascherata da quelle magie che solo il cinema sa fare.

Oggi gli Oscar sono di nuovo vicino a noi. Ma se tutto fosse cambiato, probabilmente l’oscar l’avrebbe vinto Leonardo Di Caprio.

Ci sono cose che, ad Hollywood, invece non cambieranno mai.

leonardine e directioner, fenomeni del divismo di ieri e di oggi

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Lo confesso. Nel 1998 ero anche io una leonardina. Una di quelle adolescenti capaci di andare al cinema 5 volte per vedere Titanic e che – se solo fosse vissuta in una città da anteprima cinematografica – sarebbe stata anche una di quelle ragazze da scena di delirio di massa (pianti, urla, capelli strappati) al passaggio di Leonardo di Caprio.

Sabato pomeriggio mia sorella stava sistemando il mio vecchio (ora suo) armadio e ha trovato una cartellina gialla in cui avevo religiosamente conservato (come se si trattasse di vere e proprie reliquie) giornalini, ritagli di giornale, foto, poster e perfino un album di figurine dedicati all’unico vero mito dei miei 16 anni.

Naturalmente ha subito diffuso con un sms la notizia di tal scoperta a mio marito; e tutta la famiglia (che a casa mia vuol dire circa 10 persone) ha passato il weekend a prendermi in giro. “Ma che belle collezioni di figurine facevi a quell’età!” ” Oh, complimenti per gli investimenti in giornalini! ” “Ma avevi 16 anni o 10?” “Io da piccola non riuscivo a dormire per colpa dei tuoi poster che mi fissavano in camera” “Perchè tu potevi tenere 40 post di Leonardo Di Caprio in camera e i miei poster di animali dovevano stare dentro l’armadio?” “Ma i consigli di questo articolo su come conquistare Leo li hai mai seguiti?” E lì tutti a sbellicarsi dalle risate sul divano del soggiorno.

Ok. Forse avrò speso in giornalini più del 50% delle mie paghette. Forse 40 poster dello stesso attore appesi in camera sono un pò troppi. Forse avere contemporaneamente nella propria libreria la videocassetta in italiano, quella in lingua orginale e il dvd di Titanic più che da collezionisti è da cretini. Però sono numeri che oggi mi aiutano a capire meglio il fenomeno e a contestualizzarlo.

Se oggi avessi 16 anni e fossi ancora un’adolescente soggetta alle influenze dell’industria culturale (qualcuno superficialmente direbbe soggetta e basta) sarei una directioner. Per i pochi fuori dal mondo che non lo sanno le directioner sono le fan del gruppo britannico dei One direction, uscito dall’edizione 2010 dell’ X-Factor inglese e diventati in brevissimo tempo la boyband più famosa e idolatrata del mondo.

L’effetto che i One Direction fanno sulle ragazzine di oggi, sono gli stessi che Leonardo di Caprio faceva sulle ragazzine degli anni Novanta.

In mezzo non c’è stato, che io ricordi, un fenomeno della stessa portata. Lo capisco perchè lo sguardo e l’ossessione di molte directioners che conosco sono gli stessi che avevamo io e le mie amiche leonardine e che non ho visto in tutti questi anni in nessuna generazione di adolescenti.

Il punto di questo post però è dare una spiegazione logica-antropologica al contenuto sacro di quella cartellina gialla, in modo che mia sorella e mio marito possano finalmente darsi e darmi pace.

Oggi qualsiasi directioner in qualsiasi momento della propria giornata, per conoscere ogni battito di ciglia dei propri miti, ha a disposizione:

– un motore di ricerca come google che in 0,17 secondi trova 735.000.000 risultati sull’argomento

– un’ampia pagina di wikipedia in costante aggiornamento, basata su un indice bibliografico attualmente fatto di 76 punti.

– un sito ufficiale dove trovare le date dei tour, news, storia dei ragazzi, gallerie fotografiche, gadegt e merchandising

– un sistema di account ufficiali sui social network che comprende: facebook, twetter, instagram, google plus, pinterest, getglue, soundcloud.

– un canale ufficiale youtube

– notizie fresche su tutte le piattaforme d’informazione internazionali presenti sul web

– un numero imprecisato (ma presumo mostruosamente alto) di siti, pagine facebook e account sui vari social gestiti dai fan

– circa 10.200.000 risultati inserendo “one direction” nello spazio per la ricerca dei video su Youtube.

Tutto questo analizzando i soli new-media e senza considerare i mass-.

Capirete bene, dunque, che ogni directioner può semplicemente accendere il computer o il cellulare e ritrovarsi in zerovirgoladiciasettesecondi nel mondo dei suoi miti,  conoscendo ogni dettaglio ufficiale e no, dalla foto al video, dalla biografia al gossip, dai gusti personali al numero dei peli del naso e per di più a costo zero. O al costo della adsl flat che pagano i genitori o di quel GB di traffico compreso nella promozione timyoung (o simile) del proprio iphone, che comunque in genere ricaricano i genitori.

Ai miei tempi, se volevi sapere qualcosa di più su Leo, ma anche solo vederlo in foto ecco quali erano le possibilità:

andare 5 volte al cinema a vedere “Romeo + Giulietta” o “Titanic”, sotto lo sguardo critico dei tuoi genitori e quello compassionevole del bigliettaio del cinema

comprare/noleggiare  le videocasette e i dvd dei suoi film, prenotandoli con anche due mesi di anticipo.

– farti chiamare dai tuoi genitori ogni volta che veniva fatto un servizio alla fine del telegiornale o durante il Tg2 Costume & Società.

– comprare in edicola tutte le settimane “Cioè”, “Magazine”, “Tutto” e simili (ma solo per le foto e gli articoli su Leonardo; considerate che c’era chi faceva di peggio, tipo comprarli per Kavana o per i fantastici consigli delle rubriche) e tutti i mesi “Ciak” e “La Rivista del Cinematografo”

– comprare i numeri di SpeakUp, quando uscivano i suoi film in lingua originale

ritagliare dai quotidiani che compravano i tuoi genitori (ovviamente dopo che loro avevano letto tutto il giornale, non prima) tutto ciò in cui Leonardo poteva essere anche solo citato

riempire il tuo diario di scuola con tutto quello che avevi ritagliato da giornali e giornalini, triplicandone letteralmente il volume

navigare su internet alla ricerca di qualche informazione. Dico informazione, perchè all’epoca non esistevano mica i siti con le foto.  Non c’era nemmeno google (fondato nel 1997, ma in Italia all’epoca si usavano altri motori di ricerca), per cui ti ritrovavi davanti una bella pagina bianca, fuxia, nera, giallo slampionata o celeste paint con una quarantina di righe scritte in times new roman 12.  Basta. Stop. La connessione (lenta, e con lenta intendo lentissima) si pagava al minuto e se stavi connesso a internet non potevi usare il telefono fisso. Insomma, non era nè divertente per te nè particolarmente piacevole per i tuoi familiari.

Il contenuto di quella cartelletta gialla è una sorta di capsula del tempo che dopo anni ha raccontato quale era “ai miei tempi” il rapporto tra le gli umili mortali e i miti e come questo avesse ancora il sapore del divismo della Hollywood degli anni d’oro.

Dagli anni ’20 agli anni ’60 l’industria cinematografica hollywoodiana sfornava per il pubblico in delirio ritratti fotografici con autografo dei propri attori: artigianali e illuminanti tavole votive nate per colmare l’abisso che separa chi sta in seduto al buio in sala dalla star che torreggia gigantesca e remota sullo schermo d’argento, perché l’adorante potesse rendere omaggio al suo idolo, alla sua guida spirituale, alla sua icona. Quelle foto rappresentavano l’equivalente dell’immagine sacra popolare: venivano realizzate con parametri innovativi e meccanismi collaudati per indurre al culto del divo, perchè nella sua immagine supremamente idealizzata si potessero identificare milioni di spettatori in tutto il mondo.

Lo stesso Roland Barthes scriveva di Greta Garbo negli anni 50, come dell’ attrice che “apparteneva a quel momento del cinema in cui la sola cattura del viso umano provocava nelle folle il massimo turbamento, in cui ci si perdeva letteralmente in un’immagine umana come in un filtro, in cui il viso costituiva una specie di stato assoluto della carne che non si poteva raggiungere né abbandonare.”

Sono cambiati i tempi e le tecnologie, ma credo che nelle parole di mezzo secolo fa di Barthes ci siano anche le leonardine di ieri e le directioner di oggi. Ai tempi della Garbo la tavola votiva per l’adorazione del mito era una fotografia con autografo, ai tempi di Leonardo di Caprio erano giornalini, album di figurine e poster, ai tempi dei One Direction,  siti web, pagine facebook, contenuti multimediali.

Ho iniziato ad appassionarmi al cinema quando mi sono “innamorata” sullo schermo di Leonardo Di Caprio, che tutt’ora è il mio attore preferito. Non lo amo più come allora ovviamente (non sono mai neanche andata a vederlo dal vivo quando abitavo a Roma e lui girava Gangs of New York), ma è un grande attore e lo dimostra il fatto che non abbia mai preso un oscar. Ho avuto una vita normale, delle relazioni più o meno normali e sono arrivata sana di mente ai 30 anni, pur avendo “passato la malattia” dell’idolatria a 15.

Dalla mia passione per il cinema è nata la scelta dei miei studi universitari e da questi la mia società e il filo conduttore di questo blog. Per cui posso serenamente affermare che se non fosse stato per i ritagli conservati in quella cartellina gialla, probabilmente ora non farei il mio lavoro e voi non stareste leggendo questo post.

Non erano solo poster e giornalini. Erano qualcosa di più e, in un certo senso, nel loro piccolo, mi hanno portato dove sono ora.

tre magie che hanno reso Harry Potter un successo

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Sabato scorso abbiamo festeggiato il compleanno di Sofia con i suoi compagni di scuola. Da brava figlia di organizzatrice di eventi, la piccola neo-ottenne un mese prima aveva già deciso il tema del party e come dovevano svolgersi i festeggiamenti. Premettendo che l’anno scorso aveva chiesto la classica festa con i giochi gonfiabili e i palloncini presso una nota e costosa struttura e che attualmente i temi delle feste per bambine variano da “Violetta” a “Il mondo di Patty”, non le ho nascosto il mio entusiasmo quando mi ha chiesto “una grande festa di Harry Potter nel nostro giardino”.

Va bene. Forse ci siamo lasciati prendere un pò troppo la mano, perchè ci abbiamo lavorato in 10 (tra amici, parenti e perfino un burattinaio professionista) per una settimana, ma vedere 15 bambini incuriositi tra alambicchi, dolci fantastici, bacchette e vecchi libroni, scatenati tra le aiuole alla ricerca del tesoro e divertiti come non mai davanti ad uno spettacolo di burattini (anzichè il classico iter da festa trucco-babydance-giochigonfiabili-sculturedipalloncini) sono cose che non hanno prezzo e che ripagano tutta la fatica.

E mentre organizzavo e mi drogavo di nurofen per non soccombere alla prima influenza d’autunno, la comunicatrice che è in me rifletteva sul fenomeno Harry Potter e sugli effetti che ha avuto su intere generazioni di bambini di tutto il mondo. Siccome potrei scrivere un blog intero per anni sull’argomento, mi limito ad elencarne tre, che secondo me sono tre piccole magie dell’autrice che hanno poco a che fare con il marketing.

MAGIA N.1 La sua autrice ha inventato una storia senza tempo che non finirà mai di appassionare i bambini e i ragazzi di tutto il mondo. Se ci pensate bene non esistono storie per bambini (come le chiama mia nonna, perchè i bambini sono intelligenti e non vogliono favolette) diventate così famose dai tempi di Andersen e Perrault. Fatta eccezione de Il Piccolo Principe di Antonine de Saint-Exupery o Il Principe Felice di Oscar Wilde, è dai primi dell’Ottocento che nessuno scrive delle opere letterarie per ragazzi in grado di diventare fenomeni culturali di questa portata. Va bene che la maggior parte delle favole conosciute sono diventate famose grazie a Walt Disney e va bene che dietro la Rowling c’è un gigantesco sistema di marketing, (quindi stiamo parlando di logiche post-cultura di massa) ma non credo sia solo un fenomeno di tipo economico. Harry Potter non ha tempo. Ho letto tutti i libri e visto tutti i film e non ho mai capito in quali anni si svolgesse il racconto. Non c’è un riferimento temporale nè a fatti realmente accaduti, nè alle tecnologie in uso. Gli stessi costumi utilizzati nei film hanno un mix di caratteristiche di vari periodi della storia della moda: dai vestitini anni sessanta di Zia Petunia, alle camicie anni novanta di Ron o Harry, dall’abbigliamento hippie di Henophilius Lovegood al look vago e indefinito dei passanti per le strade di Londra. Perfino nel salto temporale finale, che si svolge 19 anni dopo, Harry, Ron, Hermione e Jinny sono vestiti con lo stesso stile di quasi 30 anni prima all’inizio della saga, cosa assolutamente poco probabile nella realtà, dove la moda cambia da un anno all’altro. Perchè quello che conta non è il tempo di Londra, ma è il tempo che scorre ad Hogwarts, dove tutto sembra essersi fermato al 1600. E la cosa più affascinante è che lì bambini e adolescenti dei giorni nostri si trovano perfettamente a proprio agio, senza sentire la mancanza di pc, i mac, ipod, ipad, nintendi, playstation, cellulari, social network e così via. Al massimo si lamentano se un gufo che consegna la posta è troppo vecchio o malandato. Fantastico (in tutti i sensi), no?

MAGIA N.2 La sua autrice ha scovato il segreto del successo parlando di qualcosa che conosceva molto bene. Come per tutti i fenomeni culturali di massa, dietro la creazione di Harry Potter c’è una leggenda. La storia della mamma-single che scrive una storia per i suoi bambini, pensata tutta di colpo su un treno. “Harry Potter è comparso per la prima volta durante un viaggio in treno che mi riportava da Manchester alla stazione di King’s Cross a Londra dopo aver trascorso un fine settimana alla ricerca di un appartamento. Nella mia mente era un piccolo orfano alla ricerca della sua identità e allievo di una scuola di maghi. Capii immediatamente che scrivere questa storia sarebbe stato un vero piacere. Quella sera quindi, rientrando a casa, cominciai a scrivere su un blocchetto”.  Riflettendo su questa cosa mi sono venuti in mente immediatamente due paragoni con il segreto del successo di Walt Disney. 1. Anche Walt ha inventato Topolino su un viaggio in treno. 2. Anche Walt ha inventato Disneyland per trascorrere del tempo coi suoi bambini, facendo qualcosa con cui anche lui poteva divertirsi, anzichè stare seduto sulla panchina del parco senza fare niente. Ora, a parte il fatto che a quanto pare se si vuole creare un mito del ‘900 bisogna concepirlo sul treno, mi sembra abbastanza chiaro che le storie e i giochi per i bambini devono pensarli persone che hanno a che fare coi bambini quotidianamente. E’ l’esperienza con loro e di loro che ti aiuta a capire di cosa hanno bisogno per divertirsi e se ti lascerai coinvolgere fino in fondo saranno loro la tua ispirazione. Quando ero una mamma-single un pò sconfortata anche io, un’altra mamma-single in carriera mi aveva detto: “Vedrai che i bambini portano fortuna anche sul lavoro. I lavori più belli e i risultati più interessanti li ho ricevuti quando sono diventata mamma.” I bambini sono meravigliosi: sono creativi, spontanei, non si stancano mai e non si vergognano mai di tirare fuori idee da quelle testoline spettinate. Sono un arricchimento continuo, anche per il mondo del lavoro. Mamma Rowling ha cresciuto insieme i suoi bambini nella vita con i suoi bambini sulla carta, raccontando l’evoluzione di tutti i personaggi da bambini ad adolescenti, e insieme ai protagonisti sono cresciuti i suoi primi lettori che di anno in anno hanno affrontato la propria vita con gli stessi problemi, le stesse difficoltà, le stesse emozioni dei protagonisti del romanzo. Fatta eccezione di Signori Oscuri da sconfiggere, naturalmente.

MAGIA N.3 La sua autrice non ha paura di chiamare il male e il bene per nome. Sembrerà scontato, ma più passa il tempo, più i cattivi sembrano scomparire dalla letteratura e dalla cinematografia per l’infanzia. O se sono ancora presenti, non fanno paura a una mosca. Nemmeno a Sofia, che è abbastanza fifona. La Rowling ha scritto un epopea fantastica sull’eterna lotta tra il bene e il male, dove alla fine il bene vince, anche se non è così scontato. Ha inventato un cattivo che è la personificazione del Male, con la M maiuscola, che ha qualcosa del diavolo e qualcosa di Hitler, una buona dose di traumi infantili che lo hanno reso malvagio e nemmeno un minuscolo briciolo di pentimento. Fa paura, Voldemort. Fa paura ai bambini, ai ragazzi e agli adulti, perchè è il male che tutti conoscono. E’ allo stesso tempo il mostro che sta sotto il letto e non ti fa dormire, lo xenofobo folle con deliri di onnipotenza, la depressione che ti divora, il lato oscuro che ti affascina. Ed è per questo che è così inquietante e ti rimane in testa. Io non ricordo un cattivo di tutti i film e i libri per bambini e ragazzi usciti dalla fine degli anni Novanta in poi. Ma Voldemort non credo che lo dimenticherò mai. Così come i sentimenti che ho provato leggendo di Harry che va incontro al suo destino e del senso di liberazione (e di nostalgia, come per ogni buon romanzo che si rispetti) che ho sentito leggendo le ultime pagine dell’ultimo libro. Il bene e il male esistono da quando esiste il mondo. Il bambino e il ragazzo devono saper riconoscere il male per poterlo evitare. Altrimenti il lupo di Cappuccetto Rosso non sarebbe stato cattivo e le regine, streghe e  matrigne invidiose avrebbero solo quel piccolo diffetto. Harry Potter ha restituito alla fiaba quella sua funzione millenaria, di insegnamento alla vita e indicazione del sistema di valori che andava perdendosi, un pò per colpa del politically correct, un pò per colpa del marketing e un pò per colpa della scarsa fantasia degli autori. E per questo credo che genitori, educatori e insegnanti saranno sempre grati alla sua creatrice

Volevate sapere com’è finita la festa?

“Mamma, l’anno prossimo la rifacciamo, ma a tema “La Camera dei segreti”, come il secondo libro”. Dimenticavo, Harry Potter ha fatto diventare mia figlia una divoratrice di libri. E credo non solo lei. Visto che di questi tempi i bambini e i ragazzi leggono sempre meno e amano sempre meno doverlo fare, anche questa mi sembra una piccola magia dell’autrice.